Ultima puntata del viaggio di Massimo Bani (www.traduttorefirenze.it) in compagnia dell'amico Filippo Martelli, da Mosca in Transiberiana e attraverso le steppe mongole. Ultima tappa: da Ulaanbaatar a Pechino.
La mattina successiva ci svegliamo come al solito molto presto e in breve siamo già con il culo sul pulmino, questa volta per tornare a Ulaanbaatar. Ankah ha voglia di rivedere la moglie e la figlia nata da poco, perciò comincia a guidare più velocemente del solito, vale a dire molto forte, asfalto o sterrato, non fa differenza.
Questa volta la sosta per il pranzo la facciamo su un promontorio da cui lo sguardo sembra poter spaziare senza confini. Lontano lontano un grande gregge e ancora più lontano un fuoristrada intento nell’attraversare uno spazio talmente vasto che pare incolmabile da un qualsiasi tentativo umano; più vicino a noi una diramazione dell’elettrificazione mongola, che per struttura e sproporzione del compito che le è affidato appare totalmente velleitaria e insufficiente, eppure insiste. Si riparte e questa volta è Filippo a occupare il sedile davanti mentre io da dietro coordino i gorgheggi della comitiva in accompagnamento dei soliti nastri di canti tradizionali di Ankah che ormai non celano più alcun segreto per noi.
Si va avanti così fino a che rientriamo nel traffico indisciplinato di Ulaanbaatar. Ankah ci deposita all’ostello gestito da Idre, l’organizzatore dell’escursione, dove alloggiamo tutti insieme in una camerata da otto posti, prolungando questa nostra allegra convivenza ormai alle porte della dissoluzione attesa da tutti. L’ostello è pieno di gente; in una stanza intravedo un tale che si esercita nel violino mongolo dalla testa di cavallo producendo stridi tipo raschio sulla lavagna. Il tipo si lamenta della scarsa qualità dello strumento e maledice i furbacchioni che gli hanno tirato questo pacco al mercato. Diamo una lavata a noi stessi e al bagaglio e poi usciamo per andare al cosiddetto mercato nero di Naran Tuul.
Da piazza Sukhbaatar prendiamo l’autobus 23 fino al capolinea. Il mercato non ci entusiasma, ci trasciniamo lungo i corridoi della parte coperta e nel dedalo della parte scoperta. Mi sforzo di filmare qualcosa di interessante ma non inquadro nulla che valga la pena di tramandare ai posteri. Quando decidiamo di tornare verso il centro si crea un po’ di confusione circa l’autobus da prendere ma fortunatamente leggo il cirillico e riesco a decifrare “Sukhbaatar” sul fianco di un affollatissimo autobus, sul quale saliamo a suon di spinte.
Alla sera dobbiamo decidere dove andare a cena e non è facile perché finora in Mongolia non abbiamo mangiato un granché bene. Altri ospiti dell’ostello ci consigliano la risorsa alimentare più diffusa al mondo: un ristorante indiano che si chiama Taj Mahal, questo si trova presso l’hotel Ulaanbaatar. Il consiglio si rivela valido e nel ristorante incontriamo alcuni giovani italiani che lavorano a Ulaanbaatar per un’organizzazione caritatevole e che ci raccontano, fra l’altro, che la cosa a cui è stato più difficile abituarsi è il freddo dei 40 gradi sottozero dell’inverno mongolo, ma adesso sono in grado di sopportarlo abbastanza bene. La mattina successiva Mugu e Ankah ci svegliano alle 7 del mattino per salutarci: partono per una nuova escursione. Non ci rivedremo mai più. Abbi cura di te, ci auguriamo a vicenda; per un po’ ci siamo accompagnati, condividendo le nostre storie e arricchendole, adesso tutti noi ricentreremo nuovamente le nostre vite secondo le coordinate dinamiche dell’esistenza in questo mondo.
A metà mattinata andiamo al Gandan Kiid, il monastero più grande della Mongolia. Aggirandoci per i vari templi sentiamo e vediamo giovani monaci che si allenano nelle affascinanti orazioni cantate buddiste, mentre i più piccoli si prendono a spintoni fuori dei portoni e disobbediscono ai monaci più grandi che li invitano a entrare per partecipare agli esercizi.
Dopo un po’ decidiamo di tornare alla MIAT per vedere se l’indomani è possibile evitare di alzarci prima dell’alba prendendo un volo per Hanoi che parta più tardi. Ci andiamo cullando deboli speranze, più che altro per ammazzare un po’ di tempo, e infatti nel giro di due minuti il personale MIAT conferma la sentenza irrevocabile della partenza alle 6 di mattina e noi ci ritroviamo di nuovo per strada.
Dopo pranzo ci giochiamo l’ultima carta del mazzo di Ulaanbaatar: lo Zaisan Memorial, un particolare memoriale sovietico circolare che domina la città dall’alto di una collina. Abbiamo due possibilità: una lunghissima scalinata oppure l’autobus, prendiamo l’autobus. Siamo gli unici passeggeri. Autista e bigliettaio appaiono alquanto rilassati e dopo lunga insistenza l’autista cede alla richiesta del bigliettaio di fargli una lezione di guida dell’autobus. La cosa mi lascia sbigottito e tiro un sospiro di sollievo dopo ogni curvone che superiamo nell’ascesa verso la sommità della collina. Nei pressi del memoriale vedo un occidentale accompagnato con una ragazza locale. Mi pare un americano, probabilmente uno dei tanti fancazzisti che tirano a campare da queste parti dopo essere scappati dagli Stati Uniti per non pagare i debiti fatti per andare all’università. Il tipo attrae la mia attenzione perché sta prendendo lezioni di canto armonico da un vecchio mongolo, così ho l’opportunità di ascoltare dal vivo, per strada, questa tecnica di cui avevo solo sentito parlare. Dopo aver spedito qualche cartolina rientriamo all’ostello e chiediamo a una ragazza del personale che ci prenoti un taxi per l’indomani mattina alle 4 circa per andare all’aeroporto, concordando il prezzo a 20.000 tugrik. La cena la facciamo in ostello con i compagni di escursione. La serata è molto piacevole e divertente, con diversi giri di vodka e l’espressione di tante opinioni condivisibili. Alla fine ci scambiamo i contatti, non ci rivedremo mai più. Addio, addio. Il 1° settembre usciamo dall’ostello che è ancora buio pesto, superiamo l’ingresso invaso dal personale che dorme per terra e ci ritroviamo sulla strada deserta. Per un pezzo non passa anima viva, poi un taxi ci passa davanti e poco più in là fa inversione a U per caricarci a bordo. Riconfermiamo la tariffa di 20.000 tugrik e partiamo. All’aeroporto il tassametro segna quasi 50.000 tugrik e il tassista vuole questi per restituirci gli zaini chiusi nel portabagagli. Ne nasce una discussione che si conclude con lo scarico di tutti i tugrik in nostro possesso, circa 30.000, nelle mani del tassista, tanto nessuno ce li avrebbe più cambiati in altra valuta.
Alle 8 e 30 circa atterriamo a Pechino, lo scalo sarà lunghissimo, così ne approfittiamo per fare un giro in centro usufruendo del visto temporaneo valido 24 ore. Il cambio di clima si fa sentire; dal freddo e il secco della Mongolia al caldo e l’aria condizionata di Pechino, per colpa della quale sul treno shuttle che ci porta verso la città prendo subito una frescata che mi rovinerà gli ultimi giorni di vacanza, costringendomi a starnutire, soffiarmi il naso e ad asciugarmi le lacrime di continuo. Quando risaliamo in piazza Tien An Man mi accorgo di aver lasciato la sciarpa di seta nella metropolitana. Ci dirigiamo verso la Città Proibita. Poco prima di passare sotto il ritratto di Mao veniamo fermati da delle ragazze che dicono di essere studentesse d’arte e ci portano a vedere la loro mostra nella speranza di venderci qualcosa. Per cortesia entriamo in questa mostra ma ne usciamo velocemente. Passiamo i primi portoni della Città Proibita e nei pressi della biglietteria siamo avvicinati da una ragazza cinese che per fare pratica si offre di farci da guida gratis, impossibile rifiutare quando ci confida che non ci scorderà mai perché siamo i suoi primi clienti. Lisa, così dice di chiamarsi, si impegna davvero al massimo ma le cose che ci racconta sono così tante e il via vai di gente intorno così rumoroso che il 95% di quello che ci dice mi entra da un orecchio e mi esce dall’altro. Usciti dalla città proibita facciamo un giro nel parco imperiale lì vicino e nell’hutong adiacente. Lisa resta con noi anche a pranzo e ci aiuta a spedire delle cartoline. È una persona molto espansiva e ci racconta tutta la sua vita. Sta per sposarsi, anche se i genitori sono contrari al matrimonio perché lo sposo non ha una buona posizione lavorativa, ma lei è affascinata dalla simpatia del suo amore che sa farla ridere.
Addio Lisa, addio. Grazie. Ripassiamo da piazza Tien An Man per fare altre foto nei pressi del mausoleo di Mao e poi torniamo in aeroporto dove fatichiamo a capire dove andare a fare il check-in. Il fatto che il nostro volo per Hanoi faccia scalo a Guangzhou mette dubbi anche al personale della China Southern Airlines. Passiamo un milione di controlli, e finalmente partiamo. A Guangzhou prendiamo parte all’incredibile scalo previsto, grazie al quale scendiamo e risaliamo sullo stesso aereo dopo aver rifatto tutta la trafila dell’imbarco. Atterriamo ad Hanoi, un posto che conosciamo e dove abbiamo buoni contatti. Qui si conclude l’avventura.
Testo e Immagini: Massimo Bani - www.traduttorefirenze.it
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