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Diario di Viaggio: attraverso le steppe mongole

Nuova puntata del diario di viaggio di Massimo Bani (www.traduttorefirenze.it). Lasciata Ulaanbaatar, inizia per Massimo e Filippo la traversata delle steppe mongole insieme a un gruppo eterogeneo e sorprendente di compagni di viaggio.


La mattina successiva usciamo presto, colazione leggera e saluti. Ci mettiamo ad aspettare sul ciglio della strada sferzata da un forte vento gelido. Alex, il tedesco, è con noi. Il pulmino è molto in ritardo e nell’attesa assistiamo alle incredibili manovre degli automobilisti mongoli. A rimetterci sarà una donna, investita mentre cercava di attraversare la strada per andare alla fermata dell’autobus. Una mucca rischia di fare la stessa fine ma si salva. Meno fortunato sarà un cavallo, qualche giorno dopo, colpito da un camion, trascinato per qualche centinaio di metri e fatto a pezzi. Il vento è insopportabile. Ci addossiamo a una grande parete di lamiere per ripararci un po’. Quando il ritardo arriva a quasi un’ora, comincio a dubitare e nella testa mi passa anche l’idea di tornarmene a letto.

Finalmente il pulmino arriva. Idre, l’organizzatore del tour, non si scompone molto quando Alex sale insieme a noi, intasca anche la sua quota e a noi altri fa uno sconto di un dollaro per ogni giorno di escursione, suscitando la nostra ilarità. Idre se la squaglia, lasciandoci nelle mani di due giovani mongoli, Mugu e Ankah, rispettivamente guida e autista, gasati dal mito di Gengis Kahn, glorificato proprio in questo periodo dal cinema, e anche dai successi mongoli nel pugilato e nel judo ai giochi olimpici di Pechino. Durante l’escursione si divertiranno a prendersi beffa di noi, mollaccioni occidentali.

Così, durante le soste negli sconfinati spazi mongoli e nelle gher si organizzano piccoli Nadaal e tornei di braccio di ferro da cui noi usciamo regolarmente sconfitti. E bevute di airag, il latte di giumenta fermentato che a noi occidentali fa fare delle gran corse alla latrina.


L’unica abilità grazie alla quale mi faccio apprezzare e mi distinguo è il canto, che per i mongoli è importante quanto l’equitazione, il tiro con l’arco e la lotta. Ankah, l’autista, ha studiato canto tradizionale e nel mangianastri mette a ripetizione le cassette dei grandi classici mongoli. A Mugu invece piace il rap; ogni tanto mette delle cassette di musica rap ma Ankah permette questo cambio di musica solo per periodi molto limitati. I canti tradizionali mi affascinano. Mi dicono che i temi sono familiari. Su di tutte, le canzoni per il padre e quelle per la madre. Ascolto con attenzione e cerco di imparare almeno i vocalizzi più significativi. Una cosa che tornerà utile quando mi siedo al posto del morto, da dove canto a squarciagola negli orecchi dell’autista quando vedo che gli comincia a calare la palpebra.

Mugu, la guida, ce l’ha con i cinesi, in modo quasi viscerale. Mi chiede se penso che i cinesi abbiano imbrogliato per vincere tutte quelle medaglie d’oro alle olimpiadi. Rispondo che non ne ho idea e che la cosa mi interessa il giusto. Mugu è certo che hanno imbrogliato. Secondo lui i cinesi imbrogliano su tutto e stanno cercando di annettersi la Mongolia. Se la vogliono comprare per sfruttarne i giacimenti di materie prime. Come ci riescono? Corrompendo i mongoli e avvelenandoli con il cibo spazzatura pieno di pesticidi che riempie i mercati e i supermercati di tutto il paese. Secondo Mugu è in atto un genocidio lento ma inesorabile del popolo mongolo.


 Non c’è popolo che non guardi in cagnesco i cinesi per i loro modi spregiudicati ma non c’è governo che non ci faccia affari insieme. Magari utilizzando una triangolazione con un paradiso fiscale, così i soldi arrivano puliti nelle tasche di quelli a cui devono arrivare.

Altra colpa dei cinesi, secondo Mugu, è l’aver contribuito alla disgregazione del glorioso impero mongolo, sorto sul sangue dei cinesi, fra gli altri.

Faccio notare che sul pulmino ci sono italiani e tedeschi, due popoli che si sono fatti la guerra fino a poco più di sessant’anni fa, però le nuove generazioni vivono in pace. Chiedo quindi a questa giovane guida se sia davvero il caso che si faccia il sangue cattivo per un ribaltamento di potere di qualche secolo fa.

Evidentemente Mugu non sa molto dell’occidente e rimane piuttosto sorpreso del breve riassunto che gli faccio della storia europea recente, e si rifugia nel silenzio quando gli chiedo se è disposto a tornare a fare il pastore nomade per rinunciare orgogliosamente a quel po’ di tecnologia di cui gode anche grazie agli scambi commerciali con i cinesi.


 Su questo pulmino a cui si forano più volte le gomme e che patisce anche la rottura di una sospensione a balestra siamo due italiani, due mongoli, tre germanofoni e un giovane giapponese minuto, Ryuta, che sembra appena uscito da un ufficio di Tokyo, con la sua camicina, il suo giubbottino e i suoi occhialini. Ryuta non spiccica parola, con nessuno, anche se parla inglese. Dopo qualche ora, da bravo fiorentino rompicoglioni attacco discorso, perché sono troppo curioso di sapere come c’è finito nelle steppe mongole un tipo come lui.

Questo Ryuta si rivela una bella sorpresa. Ci racconta che ha mollato il lavoro sicuro in un’azienda importante per perseguire il sogno di viaggiare e diventare giornalista. Dopo la Mongolia, ha intenzione di proseguire verso occidente, passando per il Medio Oriente e terminando il suo viaggio in Africa, forse in Egitto. Conoscendo un po’ la società lavorista giapponese, mi rendo conto che questo ragazzo ha avuto davvero un bel coraggio, quindi massimo rispetto per Ryuta, che durante le soste nei pressi degli accampamenti spiega ai vecchi nomadi dove si trova il Giappone, facendo dei disegni sul terreno bruciato e impregnato dello sterco degli animali e si porta dietro un blocchettino di fogli con cui da dimostrazioni di origami, che però non gli riescono perché fa sempre qualche errore.


 Arriviamo al primo accampamento in forte ritardo, è già sera inoltrata. Noto che pur essendo in mezzo al nulla c’è campo abbondante per il cellulare. I casi sono due, o qui i ripetitori sono potenti come delle bombe atomiche oppure la scarsità di ostacoli fisici incontrati dalle onde elettromagnetiche permette loro di viaggiare per distanze inimmaginabili. Nella gher ci accolgono offrendoci airag e latte di pecora fossilizzato, praticamente impossibile da masticare, meglio succhiarlo come una caramella. Si sniffa anche una polvere balsamica molto forte. La gita a dorso di cammello ai margini del deserto è cancellata perché ormai è buio. Va bene, ce ne facciamo una ragione e quasi è un sollievo perché siamo stanchissimi. Dopo circa un quarto d’ora, contrordine, tutti in sella. Cerco di fare resistenza ma gli altri non mi spalleggiano. Nel cielo ci sono ormai solo bagliori di blu elettrico ma le sagome degli uomini e degli animali sul crinale delle dune ancora si stagliano contro il cielo. Partiamo per questo giro. Non è divertente, troppo buio ormai per godersi davvero qualcosa. Dopo un po’ chiedo di scendere perché ho deciso di farmela a piedi invece di stressare inutilmente questo povero cammello. Mugu e gli altri mongoli non capiscono perché mi comporto così e vogliono farmi risalire, resisto. Mi scambio un’occhiata con il cammello, noi due ci siamo intesi e siamo d’accordo.

Testo e immagini: Massimo Bani (www.traduttorefirenze.it)

Vuoi leggere la puntata precedente? Clicca qui: Diario di Viaggio: Mongolia!


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